Categorie

Diabete. Trombi, Ictus e Infarto.

A uno degli ultimi congressi di cardiologia è stato detto che il diabete è una malattia cardiaca e i partecipanti non hanno avuto nulla in contrario di fronte ad un’affermazione del genere.
In realtà si è osservato che il 66% dei pazienti diabetici passa a miglior vita a causa di patologie cardiache.
Il paziente diabetico è portato a formare nel proprio circuito circolatorio arterioso e venoso grumi di sangue, i trombi, che possono andare in circolo procurando guai, quando vanno a occludere vasi importanti come le arterie coronarie.
L’occlusione di un’arteria coronaria provoca un passaggio insufficiente del sangue e quindi una scarsa irrorazione di parte del muscolo cardiaco, provocando un’ischemia e, se il flusso sanguigno è bloccato, si arriva anche all’infarto, con la morte dei tessuti interessati.
Qualora nel circuito sanguigno si formino piccoli trombi, tali da non occludere le arterie importanti, quali le coronarie, queste formazioni possono tuttavia andare a depositarsi in piccoli vasi capillari nel cervello, provocando una scarsa irrorazione della parte interessata e si può arrivare anche a quello che si chiama un ictus.
Secondo la parte di cervello interessata l’ictus può provocare anche un’emiparesi, cioè la paralisi della parte destra o di quella sinistra del corpo umano, o una paralisi parziale, più o meno importante, di parte del corpo.
Normalmente, se la zona di cervello interessata dall’ictus è nella parte destra del cervello, si può avere una certa paralisi della parte sinistra del corpo, mentre se la zona di cervello interessata è quella sinistra si può avere la paralisi in una qualche misura della parte destra del corpo, con possibile interessamento della parola.
Questo a grandi linee sembra essere un quadro panoramico di cosa può attendere il paziente diabetico col progredire della malattia.
È evidente che il nocciolo della questione sta nella formazione dei trombi, che possono andare in giro nel circuito sanguigno, creando guai seri.
Per contrastare la formazione dei trombi sono normalmente usate due tecniche:
1) L’uso di sostanze diluenti del sangue;
2) L’uso della cardioaspirina, detta anche aspirinetta o di altri antiaggreganti piastrinici.
La terapia prevede in realtà l’assunzione di tanti altri farmaci per curare, per es., l’ipertensione.
L’uso di farmaci diluenti del sangue prevede un costante controllo della fluidità del sangue con aggiustamento, circa quindicinale, delle dosi di farmaco da assumere.
Le dosi sono variabili secondo i risultati delle analisi del sangue, per cui il dosaggio è personale.
La cardioaspirina è prescritta perché tra le sue molteplici prerogative ha quella di essere un antiaggregante piastrinico e di inibire la formazione dei trombi.
Per il paziente diabetico il tutto è legato al metabolismo delle sostanze grasse, degli acidi grassi.
Si sa che ci sono delle difficoltà per i diabetici a metabolizzare le sostanze grasse.
Senza scendere nei particolari di natura medica, che solo la cultura del medico può trattare senza incorrere in errori, possiamo riportare le impressioni proprie della cultura del paziente.
Gli acidi grassi rivestono un’importanza fondamentale nel problema dei trombi.
Nel metabolismo dei grassi si nota una differenza sostanziale nel trattamento dei diversi tipi di grassi.
Dagli acidi dihomo-gamma-linoleico (DGLA) (omega 6) derivano le prostaglandine di tipo uno.
Dall’acido arachidonico (AA) (omega 6) derivano le prostaglandine di tipo due e i trombossani A2.
Dall’acido eicosapentenoico (EPA) (omega 3) derivano le prostaglandine di tipo tre.
I tipi uno e tre sono sostanze buone, che svolgono, tra l’altro, un’azione antinfiammatoria, sono vasodilatatrici, cioè abbassano la pressione del sangue, abbassano il colesterolo LDL (quello cattivo), aumentano il colesterolo HDL (quello buono), influenzano la coagulazione del sangue.
Il tipo due è cattivo e si comporta in maniera opposta, cioè ha una funzione infiammatoria, è vasocostrittore, cioè fa aumentare la pressione del sangue, innalza il colesterolo LDL (quello cattivo), abbassa il colesterolo HDL (quello buono) e favorisce la coagulazione del sangue, provocando l’aggregazione piastrinica.
Sembrerebbe che il problema dei trombi si potrebbe risolvere alimentandosi con sostanze del tipo omega tre, ma la soluzione non è questa.
Sembrerebbe che con l’assunzione di sostanze, come l’aspirina, si potrebbe inibire considerevolmente l’aggregazione piastrinica, ma il discorso non è così semplice.
Per giudicare l’efficacia dell’uso degli antiaggreganti piastrinici, come per es. la cardioaspirina, si può osservare il comportamento della pressione sanguigna.
Se, nonostante l’assunzione dell’aspirinetta, permane l’ipertensione, vuol dire che la cardioaspirina ha limitato l’aggregazione piastrinica ma non l’ha completamente inibita, tant’è vero che se uno si fa una piccola ferita a un dito, dopo un po’, intervengono le piastrine, che, se pure in numero ridotto, sempre sono presenti e la ferita è tamponata.
Il guaio è che, per tamponare la ferita, intervengono le piastrine, ma su di esse si accumulano altri corpuscoli come i globuli presenti nel sangue e sostanze grasse, tali da formare dei grumi, che servono a ben tamponare la ferita, ma che poi, staccandosi, vanno in giro a creare guai, costituendo i trombi, che sono pericolosi perché possono andare a ostruire le arterie coronarie (ischemie, infarti) o i vasi capillari del cervello (ictus).
Il permanere dell’ipertensione significa che sono ancora in azione quelle sostanze vasocostrittrici, che non sono state per nulla totalmente inibite dall’assunzione della cardioaspirina e non può essere altrimenti perché, se così fosse, anche una piccola ferita provocherebbe un flusso di sangue inarrestabile e si potrebbe morire per dissanguamento.
L’uso dell’aspirinetta sembra, secondo questi ragionamenti, una via terapeutica di limitata efficacia e nasce e si rafforza la necessità di trovare altre vie per inibire la formazione dei trombi, vie che abbiano un’efficacia maggiore.
Per favorire la formazione di sostanze vasodilatatrici sembrerebbe, a prima vista, che si dovrebbe fondare l’alimentazione, per quanto concerne i grassi, su sostanze di tipo omega tre, che sono vasodilatatrici e antiaggreganti piastriniche.
Alla prova si dimostra che l’esperimento è quasi un totale fallimento.
Ci si chiede perché i diabetici non hanno un buon metabolismo dei grassi, anche se sono trattati con insulina e la loro glicemia è sufficientemente compensata.
La risposta è semplice.
Nel metabolismo dei grassi, come in quello dei glucidi e delle proteine, è fondamentale l’apporto dato da una sostanza detta acetil-CoA o acetil-coenzimaA.
Il diabetico ha una disgrazia, che è quella per cui nella scissione degli zuccheri, nella glicolisi del glucosio, arrivati al piruvato invece di formare, come le persone normalmente sane, l’acetil-CoA forma il lattato, che è uno ione dell’acido lattico.
Ciò sembra imputabile alla scarsezza di ossigeno nel sangue del diabetico, dovuto a bassi valori dell’eritrocito, dell’emoglobina, il cui apporto al trasporto dell’ossigeno è limitato anche dalla glicazione.
Da qui il fatto che è fondamentale tenere basso il valore dell’emoglobina glicosilata, per non limitare eccessivamente il trasporto dell’ossigeno nel sangue.
Ciò significa che il diabetico, pur iniettandosi insulina dall’esterno per raggiungere la compensazione, non riesce a derivare dal piruvato l’acetil-CoA, che è fondamentale nel metabolismo dei grassi, per cui non ha sufficiente acetil-CoA per digerire i grassi, anche se omega tre.
I grassi, anche quelli di derivazione omega tre, rimangono di difficile metabolizzazione e sono digeriti con notevole ritardo, che può superare anche le sei ore.
Il paziente diabetico, trattato con insulina, nel frattempo, avendo iniettato insulina e non avendo ottenuto glucosio dal cibo (anche se omega tre) ingerito, va inesorabilmente in ipoglicemia.
Ciò significa che nell’organismo del paziente diabetico si ha un notevole eccesso d’insulina rispetto a quella necessaria.
In condizioni d’ipoglicemia il cervello va in sofferenza per la scarsa presenza di glucosio nel sangue e questo non è certamente un bene.
Si pensa che l’eccesso d’insulina sposti l’equilibrio delle sostanze grasse verso l’acido arachidonico e si hanno vasocostrizione e aggregazione piastrinica, cioè l’effetto opposto a quello che si voleva ottenere.
Sembra che a questo gioco partecipino due enzimi il delta-6-desaturasi e il delta-5-desaturasi, che sono quelli che spostano l’equilibrio tra omega sei e omega tre e sono in quantità molto limitate.
Sembra che l’organismo si abitui a dei rapporti di equilibrio, per es., tra omega sei e omega tre.
Se ci si abitua a tenere un rapporto di 20:1 tra omega6/omega3, quando si va ad alterare questo equilibrio, aumentando l’assunzione di cibi ricchi di omega tre, l’organismo avverte un’alterazione dell’equilibrio e tende a ripristinare il rapporto preesistente.
Ciò significa che mangiare cibi insolitamente ricchi di sostanze grasse omega tre, può avere l’effetto contrario, per cui gli enzimi delta-6-desaturasi e delta-5-desaturasi fanno sì che l’equilibrio si sposti verso la formazione di sostanze quali l’acido arachidonico, con effetti vasocostrittori, infiammatori e di aggregazione piastrinica.
Questo è il contrario di quello che si voleva ottenere.
Una soluzione potrebbe essere quella di variare l’equilibrio omega6/omega3 in modo quasi impercettibile, quasistatico, per cercare di variare gradualmente l’equilibrio e abituare l’organismo a nuovi rapporti via via più favorevoli, ma questo è tutto da dimostrare in termini di efficacia.
Occorre osservare che nella trasformazione dell’acido arachidonico (cattivo) nelle prostaglandine si ha la formazione di radicali liberi.
Una via abbastanza plausibile potrebbe essere quella di contrastare tali radicali liberi, per es., con l’assunzione di sostanze antiossidanti, quali potrebbero essere il tè verde, l’acido ascorbico (vitamina C) e altre sostanze riconosciute come efficaci antiossidanti.
Il cammino da percorrere sembra abbastanza difficile e lungo.
Occorre impegnarsi nella ricerca e trovare soluzioni più soddisfacenti, perché l’uso dei soli antiaggreganti piastrinici sembra essere notevolmente inefficace e insufficiente, anche se al momento è l’unica soluzione disponibile.

Comments are closed.